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Herbert

“Avere una pistola nel cassetto porta la gente a chiedersi cosa farne. E va a finire che a un certo punto della propria vita, bang, l’illuminazione arriva. La tiri fuori con la riverenza che si deve alle persone importanti, afferri il suo manico duro e freddo e improvvisamente ti accorgi di quanto è pesante. È qui che ti vengono i primi dubbi, ma fai finta di niente, la tiri su e spari. Un gioco da ragazzi.”

Herbert teneva fisso lo sguardo sul detective che cercava faticosamente di capire cosa spinga un uomo a uccidere.

 

Patrick

Patrick se ne stava tranquillo al computer a cercare annunci per locali in vendita. Era il primo giorno libero da quando era morta sua madre, fra l’ospedale, il funerale e le attenzioni esagerate dei parenti più o meno stretti.

La vecchia signora Mayflowers aveva lasciato un bel gruzzolo in eredità al suo unico amatissimo figlio, con un biglietto: realizza i tuoi sogni. Così Patrick aveva iniziato a pensare a viaggi intorno al mondo, ville con piscina e macchine di lusso. Ma a dire la verità non gli piaceva viaggiare, una casa ce l’aveva già ed era molto affezionato al suo vecchio catorcio che ancora non l’aveva mai abbandonato. L’unica cosa che voleva era trovarsi un nuovo lavoro ma non è facile quando hai quasi sessant’anni e sai fare solo polizze assicurative e panini alla griglia. Ed è proprio quello che avrebbe fatto con i soldi di sua madre: panini alla griglia.

 

Herbert

Non era un giorno qualunque, quello, per Herbert DeVille. No, il 24 novembre non era mai un giorno qualunque per Herbert DeVille. Soprattutto da quando sua madre, trentadue anni prima, aveva deciso di spararsi un colpo in testa durante la sua festa di compleanno.

Sarebbe cresciuto da solo se non fosse stato per la donna che, in quegli anni, lo aiutò a sopravvivere. Aveva costruito tutto ciò che era appoggiandosi sulle sue spalle.

Lei lo aveva pescato nel baratro e accolto nella sua vita come un figlio, o qualcosa di molto simile. Lo aveva aiutato a pagarsi l’università e poi a entrare nello studio di Maurice Portroy, il notaio.

Se ne andò dal cimitero solo quando cominciarono a scendere le prime gocce di pioggia. Aveva aspettato qualche giorno prima di andarla a trovare, per evitare di incontrare il figlio o qualche altro parente che avrebbe potuto farsi domande a cui non voleva rispondere. Le avrebbe voluto dire tante cose, abbracciarla o ringraziarla o semplicemente ritrovarsela davanti per strada e sorriderle senza farsi vedere.

Prima di uscire si fermò anche sulla lapide della donna che aveva rischiato di distruggergli la vita, la stessa che fino a quel giorno di trentadue anni prima aveva sempre chiamato mamma. Aveva quarant’anni. “La mia stessa età”, mormorò Herbert prima di incamminarsi verso il suo studio.

 

Catherine

Lavare e stirare, questo era tutto quello che il mondo sembrava chiedere a Catherine. Anche se ora, con i soldi della signora Mayflowers forse avrebbero potuto permettersi qualcosa in più. L’idea della lavanderia a gettoni le era venuta quando si era rotta la lavatrice ed era dovuta andare a cinque miglia di distanza per trovare una lavanderia aperta.

“Cathy”, sentì la voce di Patrick, suo marito, che la chiamava. “Catherine, dobbiamo andare! Sei pronta?”. “Arrivo subito”.

 

Patrick

Non aveva mai conosciuto personalmente il notaio DeVille. Patrick lo incrociava spesso lungo la strada quando andava a trovare la madre e gli aveva sempre dato l’idea che fosse un bravo ragazzo. La tragedia di Madame DeVille aveva sconvolto tutto il quartiere e anche se all’epoca Patrick era ancora al college, quelle sono storie che ti arrivano lo stesso e non si dimenticano tanto facilmente.

 

Herbert

Trovarsi quell’uomo davanti, senza neanche una sfumatura di tristezza sul volto, fece venire a Herbert un groppo allo stomaco.

“Questo è quanto”.

 

Catherine

“Ottimo, ci bastano giusti giusti per la Lavanderia a gettoni!”, disse euforica non appena il notaio DeVille ebbe smesso di parlare.

“No, scusa, in che senso?” le rispose Patrick visibilmente perplesso.

Solo allora Catherine realizzò di non averne mai parlato con suo marito.

 

Herbert

Era arrivato al punto che le grida dei coniugi Mayflowers erano come un fastidiosissimo rumore di sottofondo nella sua testa, che intanto continuava a pensare a lei. E più loro urlavano e più lui pensava e rifletteva e ricordava. Il suo sguardo si posò sulla foto che teneva sulla scrivania. La signora Mayflowers gli sorrideva dalla cornice, era diversa dalla foto che aveva visto quella mattina al cimitero. Avrebbe voluto assomigliarle come le assomigliava Patrick, e avrebbe voluto poterla piangere liberamente. Invece suo figlio impiegava il tempo a litigare con la moglie per una squallida panineria. L’uomo di cui aveva sempre invidiato la vita e che ora odiava sopra ogni cosa.

“Basta”, disse con voce sommessa, e aprì il cassetto.

 Nedo Falchetti

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Ed è una cosa triste.

Qui, al centoquindici della follia, abbiamo bisogno di altri quattrocentottantacinque palloncini per prendere il volo. E questa è una cosa triste. Era una cosa triste quando ce ne stavamo ai bordi delle strade con le mani spellate. Una lacrima di gelo sulla guancia, il cane a scaldarci le palle. Qualcuno di noi aveva anche perso una gamba, un orecchio, quelli più fortunati un occhio. Fa sempre impressione vedere uno senza occhio, è una cosa triste. Ma a nessuno interessavano le nostre perdite. Non eravamo altro che una cosa triste, un ingombro nella strada. Una puzza di piscio da scansare, un piede mutilato da cui spostare lo sguardo. Un giorno un uomo passa e dice che gli dispiace. Di che cazzo parli? Gli dico io, e quello dice che non è giusto. Allora gli chiedo come cazzo si permette di venirmi a dire cosa è giusto e cosa non lo è. E lui mi guarda male, con lo sguardo di chi voleva solo essere buono e gentile, e dolce, caritatevole e vaffanculo. Che altro vuoi, gli chiedo. Mi alzo, aiutandomi con la stampella. Se vuoi proprio fare qualcosa per noi allora dacci un lavoro, gli dico. E lui si allontana di un passo, forse per evitare il mio fiato che minaccia il suo respiro. Vacci piano amico, dice facendo un passo indietro. Gli faccio notare che è un bel pezzo di merda, che era stato lui a dire che gli dispiaceva e tutte quelle stronzate. Gli faccio notare che è un ipocrita del cazzo come tutti gli altri, noi compresi. Se non ci trova un lavoro, delle sue parole non ce ne facciamo niente, che se le ficchi nel culo.

Ma non è certo colpa sua poveraccio, pensa quello. Lui fa il cameriere, e quegli stronzi se proprio volessero se lo potrebbero trovare un lavoro. Visto che lui, quello, si spacca il culo otto ore al giorno e quelli, noi, non fanno niente dalla mattina alla sera. Due euro non glieli dà neanche morto.

E invece quegli stronzi non se lo possono trovare un lavoro. E non se lo possono trovare perché non vogliono leccare il culo a un cliente del cazzo, o abbassare la testa agli insulti del capo, che sembra sia l’unica persona che sappia lavorare. Non lo possono trovare perché non vogliono sollevare i pesi con le braccia, lo vogliono fare con il pensiero. Quegli stronzi, sono gli stessi stronzi che tre anni fa andavano a sbattersi per aprire il bar alle sei di mattina e rifornire il catering di tutto il cibo di cui avesse bisogno. Quegli stronzi sono gli stessi stronzi che si caricavano sulle spalle pacchi e pacchi per le scale interne al bar fino alla pasticceria sotterranea, dove non c’erano neanche le finestre.

Quegli stronzi, erano gli stessi che si prendevano gli insulti al telefono, lavorando per al call center; gli stessi che pulivano i cessi della biblioteca o che andavano a disinfettare la palestra alle dieci di sera, due volte alla settimana, per cinquanta euro al mese. Gli stessi che lavavano la merda di cavallo, in nero, sottopagati, per dieci ore di lavoro giornaliere.

Quindi, guardo il cameriere dritto in faccia e gli dico che si può tenere i suoi sporchi soldi. Che anche se non ha detto niente lo so benissimo cosa pensa, e che nessuno di noi vuole tornare a vendere il proprio culo. E non gli faccio aprire bocca perché avanzo un altro paio di passi, con scarpa da ginnastica e stampella, e gli agito un dito contro, gli dico che il lavoro di merda lo abbiamo tutti lasciato perché ci eravamo rotti le palle di succhiare il cazzo per due lire. La sua espressione la dice lunga e non gli basterebbero neanche quattrocentottantacinque palloncini per volare. E così se ne va lungo la strada, con la camicia dentro la plastica, appena presa dalla lavanderia, appoggiata sulla schiena. Lo sapevo che era un cameriere. E allora mi rimetto seduto e apro il libro, con un malumore nell’anima talmente nero che neanche dopo tre giorni di trincea.

Faccio un gesto di saluto a quelli dall’altra parte della strada, quelli del centoquattordici, i laureati in legge. Loro mi urlano che succede, io rispondo niente, sto rileggendo la tesi su ontologia e opera d’arte, ma quelli mi chiedono cosa è successo con il tipo di prima, e gli urlo che non è successo un cazzo di niente.

Allora mi dicono che al Centodiciotto quelli di economia hanno finito di intagliare la scacchiera e, se voglio, c’è un torneo questa sera.  Dico no, grazie, e mi rimetto a leggere.

E così, qui al centoquindici della follia, fa veramente freddo e ce ne stiamo con le mani in mano. Ma non senza far niente, cerchiamo di scaldarle. Al centoquindici abbiamo già lavorato, già sudato e già leccato culi. Ma non faceva per noi. Così abbiamo deciso di far carriera qua, per la strada. Era una cosa triste perché non eravamo folli schizoidi, che tirano fuori un coltello e ti minacciano per due spicci. Non eravamo neanche di quelli che urlano e sbraitano. Eravamo di quelli che non fanno nulla. Una depressione come cura della personalità, ecco cosa avevamo ereditato. Al centoquindici della follia abbiamo smesso di lottare, e ce ne stiamo giorni e giorni a pensare come sarebbe stato se. È una cosa triste perché quando qualcuno chiede come stiamo, noi lo mandiamo affanculo.

noname_

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Non mi ero mai curato dei ciclamini che stavano sul balcone di nonna. Ci giocavo ogni tanto, è vero, mi limitavo a strappare qualche petalo, giusto per il gusto di vederli planare fino a terra. Ma non gli avevo mai prestato veramente attenzione. Di solito prendevo un petalo e lo tagliavo con l'unghia del pollice, quel minimo che bastava a vederne il segno scuro sul rosa chiaro e sentire il polpastrello umido di linfa. Un passatempo di poco conto, una di quelle cose che si fanno senza pensare. Quella mattina fu la prima volta che li osservai con attenzione.

Non so per quale motivo, ma quel giorno volevo memorizzare ogni dettaglio di quella casa che avevo sempre abitato sovrappensiero. Volevo portare con me un ricordo vivo come il presente, non una sfocatura del passato.

Lo zerbino rettangolare fuori dalla porta di legno, il grosso pomello d'ottone, il mobile sulla destra nell'ingresso con le foto in bianco e nero di vite trascorse e ormai dimenticate. Il tappeto con motivi persianeggianti che interrompe il cigolio delle scarpe sul vecchio parquet. La porta del corridoio sempre chiusa sulla sinistra e davanti, al di là del piccolo archetto tagliato per metà da una tenda gialla che si affloscia pigramente nel vuoto, il piccolo salone comunicante con la cucina, ancora più piccola, nella quale nonna trascorreva metà del suo tempo da sveglia. L’altra metà lo passava sulla poltrona, davanti alla televisione a tubo catodico poggiata sul canterale.

Quel giorno, quando entrai, era proprio sulla poltrona. Dormiva e non mi andava di svegliarla: in quel periodo prendeva sonno di rado e io non avevo assolutamente voglia di parlare con lei. Camminai un po' per casa, silenzioso. Ma dopo pochi passi un rumore  inaspettato riverberò dalla porta del corridoio. Senza troppa agitazione andai ad aprirla e ne zampettò fuori Rudie, il gatto. Fece un salto con cui mi superò piedi e andò a finire sul tappeto dell'ingresso. Mi guardava in una maniera strana. Non che io sappia descrivere la stranezza che può essere custodita dallo sguardo d'un gatto ma, quel giorno, sapevo che era così. Stava ritto sulle zampe, pronto a schizzare chissà dove in qualsiasi momento, ma continuava a fissarmi come si aspettasse qualcosa. In realtà il modo in cui scappò, quando provai a chiamarlo con qualche schiocco della lingua, mi rivelò che  Rudie  voleva dirmi qualcosa. Aprii bene gli occhi e cominciai a rincorrere il gatto il più velocemente possibile. Sembrava una macchia nera evanescente nel piccolo appartamento di nonna, una sagoma che fluiva nello spazio, non capivo minimamente come potesse fare certi salti senza rompere nulla. Era già uscito sul terrazzo quando lo vidi nuovamente fermo.

Sembrava incantato, con lo sguardo fisso sui ciclamini che nonna curava con amore e che io, puntualmente, tartassavo. Ci fermammo a guardare quei vasi di fiori, insieme, e per quei pochi lunghi attimi mi sembrò di riuscire a comprenderlo. Come se ci fosse una sorta di forza magnetica che da lui si trasmettesse a me passando attraverso i ciclamini di nonna.

Nel momento in cui provai ad avvicinarmi Rudie schizzò via rapido e andò a rifugiarsi di nuovo dentro casa. Rimasi a osservare i suoi movimenti isterici ed eleganti allo stesso tempo, quindi rientrai.

Nonostante tutto quel frastuono mia nonna rimaneva assopita. Mamma diceva sempre che aveva il sonno pesante, neanche le cannonate la svegliavano.

Rudie continuò a correre di qua e di là e io cercavo di capire che cosa avesse da agitarsi in quel modo, finché con un piccolo balzo andò a posarsi proprio sulla coperta di lana beige che nonna teneva per scaldarsi le gambe e il torso. Ci misi un po' a capire cosa voleva Rudie.

Tutto, su quella poltrona, era immobile.

Gianni Werner

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Era tutta la mattina che le persone entravano e uscivano dalla sala d’attesa. Entravano, uscivano, il più delle volte non si guardavano. Nel silenzioso viavai, intanto, la luce del mattino filtrava dalla finestra e il tempo passava.

Entrarono due figure che mossero l’atmosfera come una folata di vento che passa tra i rami di uno sterpo. Alcuni pazienti fecero per rivolgere loro occhiate di fastidio ma, quando si accorsero che si trattava solo di un nonno e il suo nipotino, sorrisero riportando i loro sguardi nel silenzio.

«Secondo te ho l’allergia, nonno?».

«Non lo so, ora ci facciamo prescrivere le analisi dal dottore e lo scopriamo».

«Ma io ho chiesto secondo te!» insistette il piccolo, stavolta con voce squillante.

«Secondo me sì» rispose il vecchio.

Perché mai doveva essere allergico e, soprattutto, che razza di risposta era quella? “Secondo me sì”... non era un’argomentazione, non era niente - pensava il bambino che, come tutti gli altri pazienti, guardava in basso. Nelle mani teneva una pallina di pongo, rossa. Infastidito ancora dalla risposta, la torturava fino a sentire tra le dita null’altro che un fascio di nervi. Si sedette vicino al nonno, con cui non voleva più parlare. Da lì, la luce della finestra lo scaldava e per un attimo guardò fuori. Stava arrivando la primavera e nessuno sembrava accorgersene, probabilmente nemmeno il nonno. Doveva essere solo un raffreddore il suo, e niente più. Questa storia dell’allergia proprio non gli andava giù e quella plastilina, mannaggia, non prendeva mai la forma giusta. Si sentì toccare la spalla, era l’ora di entrare e, agitato per questa storia del raffreddore, lasciò il pongo su un tavolino della sala d’attesa.

La porta d’ingresso dello studio fece rumore nuovamente e un uomo entrò nella stanza. Senza degnare nessuno d’uno sguardo si diresse verso la finestra dove ora, una sedia, in disparte, accanto a un tavolino, sembrava aspettare proprio lui. Che fortuna - pensò, dal momento che voleva starsene per conto suo. Prima di aprire quella porta aveva sperato di non incontrare nessuno, conoscente o cliente che fosse. Quello, il primo passo, era andato liscio.

Per il resto, però, la nausea continuava a tormentarlo. Guardò fuori dalla finestra cercando di distrarsi e si accorse di una luce strana, diversa dal solito. Era la primavera che stava arrivando e, era vero, nessuno dentro quella stanza sembrava accorgersene, tutti così presi dall’abbottonarsi quei cappotti ingombranti. La nausea tornò più forte e l’uomo credette fosse meglio lasciar perdere quel genere di pensieri. Sì, perché a dire il vero, sapeva che il dottore poteva dirgli ben poco della propria nausea. Per il momento, però, una spiegazione qualunque poteva bastargli.

Guardò il tavolino accanto alla sedia. Piccolo e inutile, era un oggetto fuori posto. Poi, si accorse che non era l’unica cosa fuori posto: una palla di pongo sostava indifferente, lì sopra. Nel guardarla si ricordò della sensazione che aveva provato nel toccarla, maneggiarla ma era passato tanto tempo dall’ultima volta. Se la ricordava bene però. Si ricordava perfettamente la sensazione che si prova nel modellare i propri desideri come si fa con una palla di pongo.

Stretta nella mano può diventare qualsiasi cosa, anche se al momento non è nulla, solo una massa informe e morbida. Sarebbe bello, con la sola forza delle mani, plasmare l'inesistente e costruirlo nella realtà, correggendolo con semplici pressioni delle dita. Avrebbe voluto prenderla subito, in quel preciso momento, toccarla senza chiedere il permesso e sentirla muovere insieme ai suoi gesti fino a farla divenire perfetta. Avrebbe voluto sfiorarla con i polpastrelli e scoprire come un sottile filo d'aria possa dividere l'immagine dalla realtà. Pensava a tutte le possibilità che avrebbe avuto di correggerne le forme, riparare gli errori, creare l’irreale. Poi, la porta del corridoio si aprì e la voce del dottore chiamò il suo nome.

Il bambino, nel frattempo, corse veloce fino al suo posto e si accorse, sollevato, che il suo passatempo era ancora lì; si accorse anche, però, con insoddisfazione, che la palla di pongo rosso era uguale a prima.

«E’ ancora qui, per fortuna» disse il nonno.

«Sì, ma nessuno l’ha nemmeno toccata».

«Perché? Volevi forse che qualcuno la prendesse senza chiederti il permesso?» rispose stupito il vecchio.

«Mica dovevano rubarla, eh» e la prese dal tavolino, dandole di nuovo movimento.

Amerigo, intanto, usciva dallo studio del dottore e si recava verso la sala d’attesa con la voglia di prendere ciò che aveva lasciato lì. Guardò sul tavolino ma non c’era nulla. La solita delusione, insieme alla nausea, gli occupò lo stomaco. L’avrebbe presa, se solo ci fosse stata ancora, o almeno questo è quel che si ripeteva.

Uscendo si accese una sigaretta e passeggiò tenendo lo sguardo fisso a terra. Guardava le sue scarpe e ripensava a quel muratore che aveva conosciuto lo scorso inverno. Quel tale gli aveva detto che le scarpe sono il simbolo di come approcciamo al mondo.

D’un tratto, inspiegabilmente, gli vennero in mente degli scarponi da muratore, quelli con la punta di ferro per proteggere il piede. Decise che ne avrebbe fabbricato un paio anche per sé.

Giulio Canterino

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“C’è sempre qualcosa che non va con te! Dio, non sai quanto mi fai incazzare!”.

L’Altro prende a sbraitare tirando manate contro gli sportelli della dispensa.

“Se tu potessi anche solo considerare l’idea di darmi retta ogni tanto, forse non ci infileremmo sistematicamente in questi disastri”.

James posa il coltello sul mobile della cucina e si mette seduto.

“Sarebbe stato tutto più semplice se mi avessi dato ascolto fin dall’inizio, ma invece no: si fa come dice il Signorino. E allora ecco come va a finire”.

Con il capo chino fra le mani, James se ne sta paralizzato in quella cucina. Non sa cosa rispondere.

«C’è nessuno?».

«In cucina».

«Dio mio. Che cosa è successo?».

Un uomo con l’impermeabile nero appare sulla porta seguito da una donna bionda con i capelli corti.

«Non penso che le servirà la pistola» dice James alzando per un attimo entrambe le mani, «sono disarmato».

L’uomo mette via l’arma e si avvicina a passi lenti.

«È stato lei a chiamarci?»

«Sì».

«E può dirci cos’è successo?»

«Temo che sia una lunga storia».

L’uomo fa un cenno alla donna bionda prima di sedersi di fronte a James.

«Abbiamo tempo».

Già, loro hanno tempo e possono ascoltare la versione del Signorino. Noi per fortuna tutto questo tempo non ce l’abbiamo, quindi cercherò di essere conciso.

James è nato nel 1983 in un sobborgo di Manchester. Non è un bel posto per nascere, bisogna dirlo.

La prima volta che parlò con me era l’estate del 1986, quando cominciava a spiccicare le prime parole di senso compiuto. E io ero lì. Come ero lì per il suo primo giorno di scuola, le prime pedalate senza rotelle, le prime storie, il primo bacio, la prima scopata. Io ero sempre lì.

Col tempo, però, smise di darmi retta.

Mi ascoltava, certo, stava a sentire tutti i consigli che avevo da dargli, a volte riusciva anche a rispondermi. Ma poi faceva di testa sua, e la cosa mi faceva incazzare in un modo che voi non potete immaginare.

È come quando vi accorgete che i vostri figli sono cresciuti e stanno lì a sentirvi raccontare le vostre avventure lavorative mentre smanettano sui loro smartphone e annuiscono di tanto in tanto. A volte rispondono anche con qualche frase sensata, collegata a ciò che stavate dicendo, e vi fanno illudere di aver capito.

Ma no, non vi stanno a veramente a sentire. Se ne fregano. I più stronzi lo fanno per i soldi, gli altri per compassione.

James non aveva né l’uno né l’altro stimolo per starmi a sentire, e fargli notare ogni volta che avevo ragione era come cercare di convincere il Papa che Dio non esiste.

È lì che venne fuori il Signorino.

Intendiamoci, non è che prima James si lasciasse trascinare troppo da me, ma quantomeno ogni tanto veniva a divertirsi. Almeno finché non conobbe Liz che, per inciso, è la proprietaria di questo appartamento.

«Elizabeth Paltrow».

Appunto. Scusatemi un attimo.

L’uomo con l’impermeabile nero continua a guardare James con serenità.

“Guardalo! Guardalo, con quella faccia da cazzo di chi fa finta di non capire!”.

L’Altro si sposta dalla finestra e inizia a girare intorno all’uomo gesticolando animatamente.

“Potresti per una volta startene nel tuo angolino in silenzio?”.

«Con chi sta parlando?»

L’uomo si volta, cercando con lo sguardo qualcuno che non può vedere.

«Mi scusi, stavo solo ricordando».

«Prego, continui pure».

“Se gli dici anche un’altra parola su Liz io giuro che t’ammazzo con le mie mani!”

“Tu non esisti”.

“Eccolo là! Cristo santo, James, se io non esisto tu con chi cazzo hai parlato negli ultimi trent’anni?”.

È la donna ora che si guarda intorno con fare dubbioso.

“Non dire un’altra parola su Liz”.

Il Signorino se ne stava sempre lì immobile in quel vestito elegante e sussurrava parole all’orecchio di James. Mi facevano imbestialire quei due, sempre a parlottare fra di loro come se non esistessi. Mi chiamavano L’Altro, come se fossi l’ultimo arrivato.

Ma la cosa peggiore era che James iniziò a dar retta a lui e non a me. Rimasi da solo nella sua cazzo di testa e per un po’ ho creduto anch’io di non esistere.

Poi lo vidi, una sera in un pub con degli amici di Liz. Aveva bevuto un po’ più del solito e mentre il Signorino gli diceva di smettere lui lo ignorava e continuava a bere. Fu allora che decisi di rimettermi in gioco.

“Guarda quella lì che tette. Guardala, secondo me ci sta”.

“E tu che fine avevi fatto?”.

“Sono sempre stato qui. Ma ora concentrati su di lei”.

“Sì, ce l’ho”.

Ero di nuovo in pista.

Quando Liz e gli altri se ne furono andati, o almeno era quello che pensavamo, decidemmo di darci da fare. Lei era bellissima, sola, e si convinse a venire con noi in macchina. Fu una notte meravigliosa quella.

Pochi mesi dopo i genitori di James si trasferirono in Italia e noi con loro.

Mamma era già in là con gli anni quando hanno avuto James, e papà, beh, lui era italiano e non sopportava l’idea di vivere gli anni della pensione in quel posto di merda.

«Mi sta dicendo che quella notte la signorina Paltrow ha assistito alla scena?».

«Sì».

“Ma che cazzo! Ma non posso distrarmi un attimo che tu spiattelli tutto? Ma sei scemo?”.

“Lasciami stare”.

L’uomo guarda James e poi il suo taccuino. Forse comincia a mettere insieme i pezzi.

“Non ci posso credere! Ho passato trent’anni della mia vita con un coglione”.

Io la mia versione di quella storia ve l’ho raccontata, non date retta agli altri.

Comunque il trasferimento in Italia fu una mano santa. Per noi, per Liz, per tutta la situazione che si era creata.

James aveva iniziato l’università e aveva conosciuto Francesca. Si trovavano bene insieme, erano felici e James sembrava aver rimosso i ricordi di quella notte.

Ma quando Liz si presentò al portone di casa con in mano le foto, capii che non era affatto così.

«È per questo che sono tornato in Inghilterra, per sistemare le cose».

L’uomo smette di prendere appunti, posa la penna sul tavolo e alza lo sguardo verso gli occhi di James.

«E questo me lo chiama sistemare le cose ?».

«Non voglio vivere prigioniero di un ricordo»

Credo che ormai sia tardi per cercare di risolvere la situazione. Prima che ci portino via di qui, sappiate che è tutto falso. Le foto, la ragazza, Liz, tutto.

Tutto ciò che vi diranno è falso.

«Dov’è ora?»

Lo sguardo di James si sposta per la prima volta sulla donna bionda.

«In camera sua, sul letto».

«E le foto?».

James infila la mano nella borsa e tira fuori una grossa busta.

«Ha fotografato ogni cosa. Ci ha seguiti in macchina fino al sentiero. Ci ha visti mentre la portavamo lontano dalla strada e la spogliavamo. È rimasta lì a guardarci per tutto il tempo».

Ora, per la prima volta, l’uomo non ha davvero capito nulla.

«Mi scusi, chi altro c’era?».

«Eravamo tutti lì, quella sera. Tutti e tre».

«Tutti e… tre?».

Tutti e tre?

«Ho sempre pensato che fosse colpa dell’Altro ma non è così. C’era anche il Signorino, ma soprattutto c’ero io».

«Può farmi i nomi di queste persone?».

«James Marconi, tutti e tre».

Tutti e tre.

«Temo di non capire».

Stavolta è la verità. L’uomo con l’impermeabile nero non ci sta capendo nulla.

«Lo so».

«E lo sa, signor Marconi, che ora verrà con noi, vero?».

«Sì, sono io che ho chiamato».

“Se tu mi avessi ascoltato, James, forse ora non saremmo in questo casino”.

Il Signorino cerca qualcosa nel frigorifero mentre con la solita pacatezza fa il punto della situazione.

“Avremmo dovuto ammazzare anche lei, quella notte.”

“Di’ ancora una parola su Liz e ti giuro che ti ammazzo con queste mani!”

L’Altro parte come una molla, è infuriato.

“Guarda cosa hai fatto, guarda!”

“Ci stava ricattando. E ci stava ricattando per colpa tua.”

“Tu menti, e lo sai.”

“L’ho uccisa per colpa tua.”

“C’eri anche tu quella notte, diglielo James che c’era anche lui”.

“È stata una mia decisione quella di tornare qui”.

James si alza e allarga le mani per separare i due. “Mia e di nessun altro.”

«Signor Marconi? James? Si sente bene?».

«È stata una mia scelta fin dall’inizio».

«Sì, certo. Capisco».

Perché non l’hai mai amata davvero.

Nedo Falchetti

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