Una Foto

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La luce che entrava dalla finestra illuminava quel poco che bastava per non vedere tutto nero nel salone. Luca stava seduto sulla poltrona, quella morbida e rosa dove si sedeva sempre, prima della galera. Stava lì, silenzioso, e guardava il mobiletto davanti a sé. Era un mobiletto come tanti, uno di quelli che, in ogni casa, ospita una quantità enorme di ricordi, persone, eventi. Anche lui avrebbe voluto averne uno.

Rigirandosi nella tasca il sigaro dello zio, si era fermato a guardare delle vecchie foto e ne fissava due in particolare: da una parte c’era lui con suo nonno, mentre spegnevano le candeline dell’ottavo compleanno; l’altra era dei suoi genitori, giovani, insieme alla zia Amelia. Guardò attentamente quest’ultima, ricordando sua madre che non aveva più incontrato, come nemmeno suo padre. In quella foto lui non c’era ancora, ma li sentiva più vicini in quel pezzo di carta che in tutto il tempo che aveva passato fuori dalla cella. Avrebbe preso quella, di foto, se solamente non ci fosse stata anche la faccia sorridente di quella stronza della zia Amelia. Il sorriso lo tirava fuori solo in certe occasioni, pensò Luca, quando doveva fare delle foto e quando incontrava qualcuno a cui teneva. Evidentemente, non teneva più a lui, si disse. Avrebbe preso quella se non ci fosse stata la zia.

Chiuse gli occhi, fece un respiro e si alzò silenziosamente dalla poltrona. Prese le cornice d’argento con la foto di suo nonno e, guardandola, sorrise nel buio. Mentre la infilava nello zaino nero, vide un’ultima volta la foto dei genitori. Sorrise anche a loro e si girò, convinto che fosse giusto lasciare lì quell’espressione finta, finta come tutto ciò di cui si circondava.

Dalla porta in fondo al corridoio vennero dei rumori. Passi. Luca si nascose nuovamente dietro la poltrona rosa e stette a guardare, con il battito del cuore che, per la prima volta in quella sera, diventava più veloce. Poi la porta si aprì e, insieme a un motivetto canticchiato, uscì la zia Amelia. Dal suo lento muoversi e dal modo con cui si spostava i capelli dalla fronte, Luca capì che si era appena svegliata. La guardò e si rese conto che poteva essere scoperto nell’arco di pochissimi secondi e non c’era cosa che potesse fare per evitarlo. Immobile, tirò fuori la foto con suo nonno. Ridevano entrambi, e lui lo teneva sulle ginocchia mentre portava un cappello di carta per le feste. Un attimo dopo, la porta del bagno scattò: il corridoio era di nuovo libero.

Luca non si faceva mai tante illusioni, per questo non si concesse ancora un sospiro di sollievo. Mise di nuovo la foto nello zaino e decise di passare dalla finestra della cucina, che dava sulla parte opposta alla piscina, dove invece Gerard stava ancora fumando i suoi grossi sigari cubani. Passare di lì senza essere scoperto era stata una fortuna e il ragazzo pensò che fosse meglio non tentarla di nuovo.

Girò lentamente la maniglia della finestra scorrevole e la spinse con la delicatezza che si usa con gli oggetti di valore. In realtà, l’unico oggetto di valore a cui Luca tenesse era chiuso nella zip del suo zaino nero. Pensava a quello mentre spingeva il ferro della finestra lungo il binario.

Con una gamba fuori e l’altra ancora dentro, sentì lo sciacquone dietro la porta. Con un ultimo salto sgangherato si ritrovò fuori e riaccostò in fretta la finestra, sacrificando un po’ di delicatezza in nome del panico che gli percorreva la gola. Solo allora si concesse quel sospiro di sollievo.

Dandosi un’occhiata intorno, nonostante il buio, si avvicinò al recinto di casa. Dall’altra parte c’era la strada. Una distanza di pochi metri lo divideva dalla tranquillità di non sentirsi braccato, anche se da quando era uscito di prigione quella sensazione non lo lasciava mai.

Il legno scricchiolò quando ci si aggrappò con entrambe le braccia, e Luca si girò subito a controllare che nessuno avesse sentito. Via libera, pensò.

Ma una voce si fece spazio nel buio, dall’angolo della veranda, inchiodandolo al legno della staccionata.

«Se volevi passare a fumarti un sigaro potevi chiamare». Gerard sputava fuori un fumo denso che volava in alto. Luca invece, si sentì d’un tratto come tirato verso terra. Si girò solo a metà e non lo guardò che per un attimo. Attendeva, paralizzato, di vedere cosa sarebbe successo. Era stato scoperto. Quel cilindro di tabacco che gli aveva sfilato pesava come non mai nella tasca della felpa.

«Sai, mi sarebbe piaciuto - continuò Gerard - ricevere una tua chiamata, uno di questi giorni. Non ti ho mai detto niente, però... sono fatto così. Aspetto che le persone facciano quello che vogliono fare. Pensavi non mi fossi accorto di te, prima?»

La vestaglia azzurrina dondolava nella penombra, lasciando intravedere la canotta bianca del cinquantenne, francese e stronzo. Luca lo guardava sorpreso: si sentiva preso in giro. Il buffone lo aveva beccato sin dall’inizio.

«Considerando che non ho sentito Amelia urlare, vetri infrangersi o vasi spaccarsi, mi viene da supporre che tu non abbia combinato niente di grave. Niente di grave, per lo meno, per il mio portafoglio o per la salute di tua zia». Una striscia di luce, dalla strada, cadeva orizzontale all’altezza degli occhi del francese, cosicché Luca ne potesse guardare lo sguardo fisso. Quegli occhi brillavano di una tranquillità feroce.

Gerard si girò e Luca vide un’altra nuvola di fumo andare verso il tetto. «Faresti meglio ad andare. Spero di fumare qualche sigaro con te, un giorno. Buona notte».

Il ragazzo si tirò sulla staccionata più veloce che poté, vergognandosi come un cane. Quando si trovò a camminare sul marciapiede l’unica cosa che lo fece sorridere, però, fu pensare a come quella foto trafugata sarebbe stata bene sopra il mobile del salone.

 

Giulio Canterino

 

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