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La sposa punta il mazzo di fiori verso terra, senza farci caso. Lo sguardo avanti, supera la strada e va ancora oltre, fin dove nessuno riesce guardare. I musicisti, contriti, si allontanano in silenzio uscendo da sotto il portico e sbirciando appena il viso morto di quella donna. C’è chi di loro abbassa il cappello sulla fronte. Ci sono cose che non si vogliono guardare.

Tutti se ne stanno sul sagrato, perso in mezzo al deserto, e sono i soli a voler guardare quella scena. Stretti l’uno all’altro, ammirano l’amore della sposa disperdersi nella sabbia e nel vento che le muove i capelli. Si consolano tra di loro, non avendo il coraggio di avvicinarsi alla giovane disperata.

Un camion passa ruggente per la strada, venendo da chissà dove, andando verso un posto sconosciuto. Il vestito bianco, invece, rimane impantanato e immobile nel suo stesso, piccolo, stringente spazio desolato. La donna fa cadere il mazzo di fiori, sentendo le forze confluire verso quello stesso punto lontano e inesistente dove aveva finora guardato. Avrebbe potuto aspettare per tutto il tempo lì, per tutta la vita, fin quando non fosse morta. Concentrato ogni sogno in quell’uomo, lei non era più niente. E quante, quante volte l’aveva capito - lei - di non essere niente. Sorride, perché in quei momenti tutto perde senso.

Calpesta i fiori voltandosi verso il sagrato. Tiene la testa a terra, intuendo gli sguardi pietosi degli invitati fermi lì. La compassione, anche, non ha senso, si dice. La folla si dischiude come acqua che si apre davanti al cammino, e la sposa entra in chiesa. Il fresco gelo umido dell’edificio le colpisce la pelle e le ossa. Guarda l’altare, ricordando le fantasticherie che per mesi aveva avuto ferme in testa. In prima fila, seduto alla prima panca, c’è un uomo che con la testa, anche lui, guarda a terra. Avvicinandosi, la donna riconosce il parroco. Si accorge della sua sincerità: quella di un uomo che, anche lui, ha perso ogni speranza e non volge più lo sguardo al crocifisso. Lenta e molle, si siede al suo fianco. Lui la percepisce, ma non la vede.

E’ una vicinanza inconsueta per un prete e una donna, ma i loro fianchi non si allontanano. Senza guardarsi, respirano pesantemente abbandonandosi sullo schienale. Le loro solitudini si sollevano da terra e si mischiano alla fredda umidità della chiesa.

Lei gli prende la mano e, nel silenzio, si stringono forte.

Giulio Canterino

 

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La luce che entrava dalla finestra illuminava quel poco che bastava per non vedere tutto nero nel salone. Luca stava seduto sulla poltrona, quella morbida e rosa dove si sedeva sempre, prima della galera. Stava lì, silenzioso, e guardava il mobiletto davanti a sé. Era un mobiletto come tanti, uno di quelli che, in ogni casa, ospita una quantità enorme di ricordi, persone, eventi. Anche lui avrebbe voluto averne uno.

Rigirandosi nella tasca il sigaro dello zio, si era fermato a guardare delle vecchie foto e ne fissava due in particolare: da una parte c’era lui con suo nonno, mentre spegnevano le candeline dell’ottavo compleanno; l’altra era dei suoi genitori, giovani, insieme alla zia Amelia. Guardò attentamente quest’ultima, ricordando sua madre che non aveva più incontrato, come nemmeno suo padre. In quella foto lui non c’era ancora, ma li sentiva più vicini in quel pezzo di carta che in tutto il tempo che aveva passato fuori dalla cella. Avrebbe preso quella, di foto, se solamente non ci fosse stata anche la faccia sorridente di quella stronza della zia Amelia. Il sorriso lo tirava fuori solo in certe occasioni, pensò Luca, quando doveva fare delle foto e quando incontrava qualcuno a cui teneva. Evidentemente, non teneva più a lui, si disse. Avrebbe preso quella se non ci fosse stata la zia.

Chiuse gli occhi, fece un respiro e si alzò silenziosamente dalla poltrona. Prese le cornice d’argento con la foto di suo nonno e, guardandola, sorrise nel buio. Mentre la infilava nello zaino nero, vide un’ultima volta la foto dei genitori. Sorrise anche a loro e si girò, convinto che fosse giusto lasciare lì quell’espressione finta, finta come tutto ciò di cui si circondava.

Dalla porta in fondo al corridoio vennero dei rumori. Passi. Luca si nascose nuovamente dietro la poltrona rosa e stette a guardare, con il battito del cuore che, per la prima volta in quella sera, diventava più veloce. Poi la porta si aprì e, insieme a un motivetto canticchiato, uscì la zia Amelia. Dal suo lento muoversi e dal modo con cui si spostava i capelli dalla fronte, Luca capì che si era appena svegliata. La guardò e si rese conto che poteva essere scoperto nell’arco di pochissimi secondi e non c’era cosa che potesse fare per evitarlo. Immobile, tirò fuori la foto con suo nonno. Ridevano entrambi, e lui lo teneva sulle ginocchia mentre portava un cappello di carta per le feste. Un attimo dopo, la porta del bagno scattò: il corridoio era di nuovo libero.

Luca non si faceva mai tante illusioni, per questo non si concesse ancora un sospiro di sollievo. Mise di nuovo la foto nello zaino e decise di passare dalla finestra della cucina, che dava sulla parte opposta alla piscina, dove invece Gerard stava ancora fumando i suoi grossi sigari cubani. Passare di lì senza essere scoperto era stata una fortuna e il ragazzo pensò che fosse meglio non tentarla di nuovo.

Girò lentamente la maniglia della finestra scorrevole e la spinse con la delicatezza che si usa con gli oggetti di valore. In realtà, l’unico oggetto di valore a cui Luca tenesse era chiuso nella zip del suo zaino nero. Pensava a quello mentre spingeva il ferro della finestra lungo il binario.

Con una gamba fuori e l’altra ancora dentro, sentì lo sciacquone dietro la porta. Con un ultimo salto sgangherato si ritrovò fuori e riaccostò in fretta la finestra, sacrificando un po’ di delicatezza in nome del panico che gli percorreva la gola. Solo allora si concesse quel sospiro di sollievo.

Dandosi un’occhiata intorno, nonostante il buio, si avvicinò al recinto di casa. Dall’altra parte c’era la strada. Una distanza di pochi metri lo divideva dalla tranquillità di non sentirsi braccato, anche se da quando era uscito di prigione quella sensazione non lo lasciava mai.

Il legno scricchiolò quando ci si aggrappò con entrambe le braccia, e Luca si girò subito a controllare che nessuno avesse sentito. Via libera, pensò.

Ma una voce si fece spazio nel buio, dall’angolo della veranda, inchiodandolo al legno della staccionata.

«Se volevi passare a fumarti un sigaro potevi chiamare». Gerard sputava fuori un fumo denso che volava in alto. Luca invece, si sentì d’un tratto come tirato verso terra. Si girò solo a metà e non lo guardò che per un attimo. Attendeva, paralizzato, di vedere cosa sarebbe successo. Era stato scoperto. Quel cilindro di tabacco che gli aveva sfilato pesava come non mai nella tasca della felpa.

«Sai, mi sarebbe piaciuto - continuò Gerard - ricevere una tua chiamata, uno di questi giorni. Non ti ho mai detto niente, però... sono fatto così. Aspetto che le persone facciano quello che vogliono fare. Pensavi non mi fossi accorto di te, prima?»

La vestaglia azzurrina dondolava nella penombra, lasciando intravedere la canotta bianca del cinquantenne, francese e stronzo. Luca lo guardava sorpreso: si sentiva preso in giro. Il buffone lo aveva beccato sin dall’inizio.

«Considerando che non ho sentito Amelia urlare, vetri infrangersi o vasi spaccarsi, mi viene da supporre che tu non abbia combinato niente di grave. Niente di grave, per lo meno, per il mio portafoglio o per la salute di tua zia». Una striscia di luce, dalla strada, cadeva orizzontale all’altezza degli occhi del francese, cosicché Luca ne potesse guardare lo sguardo fisso. Quegli occhi brillavano di una tranquillità feroce.

Gerard si girò e Luca vide un’altra nuvola di fumo andare verso il tetto. «Faresti meglio ad andare. Spero di fumare qualche sigaro con te, un giorno. Buona notte».

Il ragazzo si tirò sulla staccionata più veloce che poté, vergognandosi come un cane. Quando si trovò a camminare sul marciapiede l’unica cosa che lo fece sorridere, però, fu pensare a come quella foto trafugata sarebbe stata bene sopra il mobile del salone.

 

Giulio Canterino

 

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Prima di partire per la guerra, Asimov nuotò nel fiume. “Non so quando sentirò di nuovo l’acqua togliermi il male di dosso” disse alla moglie, che teneva il bambino fra le braccia. “Stare nel fango senza sosta non si addice a un uomo”. Poi la baciò, abbracciò il piccolo e con le armi volse lo sguardo al confine.
Fu accolto nel silenzio di uomini ammassati nel fango, senza più nulla in cui sperare. Ogni sguardo assomigliava a un altro. Conobbe il suono della spada che si conficca impietosa nella carne e le grida di dolore che – sole – rompevano il silenzio.
Dimagrì, i lineamenti del volto si fecero duri come mai furono, dimenticò come si parla a un amico. Camminando fra i cadaveri, anche lui divenne morto.
Poi venne l’assedio alla città nemica: durò tre mesi, tre mesi di incessante silenzio e attesa. Il caldo estivo faceva ribollire i corpi e grondare il sudore ma le spade rimanevano immobili. Nulla cambiava. L’unica cosa che Asimov sentiva era il mare lontano e irraggiungibile, acqua ormai dimenticata. Oltre la cinta muraria, uomini come lui attendevano una fine che aveva perso ogni significato e sognavano un mare calmo su cui galleggiare senza più nessun peso da portare.
L’ultimo giorno d’estate il cielo si fece grigio e il vento smosse la ferraglia lucida. I rintocchi fra le lame ricordarono ad Asimov il suono delle campane. Piovve, d’un colpo, inondando la valle, portando lontano il fango e ripulendo visi coperti da terra e dolore. Asimov pensò al fiume, al mare, a sua moglie.
Nella notte fuggì e corse a riva, dove il rumore delle onde sulla spiaggia scrostò il silenzio dalle orecchie. Entrò in acqua fissando la luna che con i suoi raggi riflessi mostrava una via candida da percorrere per tornare a casa. In lontananza giunsero dei cavalli e, voltandosi, Asimov riconobbe gli stendardi. Coi palmi stava toccando il pelo dell’acqua quando scoprì il suono che fa un freccia conficcandosi nel cuore.
“Stare nel fango senza sosta non si addice a un uomo” pensò. Mentre galleggiava, vide la luna, sua moglie, suo figlio. La luce riflessa sull’acqua lo riportò a casa.

Giulio Canterino

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Quella mattina il telefono squillò presto e Dave preparò una voce rilassata e spensierata.

«Pronto?»

«Ehi, buon giorno… faresti bene ad andare a comprare il giornale» gli disse dalla cornetta, andando dritta al punto.

«Devo preoccuparmi?»

«È meglio che te l’abbia detto io»

Quando attaccò si accorse che la voce non gli era venuta come avrebbe voluto.

Andò dal giornalaio all’incrocio con la statale e chiese una copia dello Sports Observer. L’uomo dietro la montagna di riviste dovette scavare tra i giornali prima di dargli quello che cercava. Nel tragitto di ritorno diede un’occhiata al giornale e poi all’orologio. Dovette guardarlo di nuovo, perché non aveva letto l’ora. Era quasi pranzo ma non aveva fame.

Poggiò il giornale sul tavolo della cucina e si sedette con una tazza di caffè caldo tra le mani. In prima pagina c’era scritto a caratteri cubitali: “Marini: defaillance o declino?”. L’occhiello continuava: “L’eroe del pugilato crolla nell’incontro contro McRaw. Che sia già finito il sogno?”. Dave nel leggerlo strinse le labbra, poi bevve un sorso di caffè e le strinse di nuovo per asciugarsi la bocca.

«Grazie» disse.

«Non c’è di che. Quando vuoi fatti sentire»

Dave non capiva perché la stampa desse così importanza a quell’incontro: non se la meritava – si diceva. E che senso aveva un titolo del genere? Rappresentava due quadri completamente opposti: da una parte si parlava di uno scivolone quasi fisiologico, dall’altra del punto di declino di un grande professionista. Quasi non si capiva che posizione prendesse il giornalista – un certo Roberts – poiché era netto e tagliente in entrambi i versi. Sembrava che l’Observer, con quell’articolo, si ponesse tra le due schiere di tifosi, quelli per Marini, quelli per McRaw, e le incitasse entrambe.

Dave aveva finito il caffè. Ne avrebbe voluto dell’altro ma decise di andare a correre, il porto lo metteva sempre di buon umore. Sì, una corsetta era proprio quello che ci voleva.

Al punto in cui il respiro affannato si fece costante e il sudore impregnava la canottiera grigia, Dave era giunto quasi al termine della baia. A una ventina di metri di distanza vide un vecchio seduto su una panchina. Avvicinandosi, si accorse che teneva tra le mani un giornale. Tentò di leggerne la testata ma, proprio mentre gli passava accanto, il vecchio girò pagina.

Dave sarebbe rimasto ore, quel pomeriggio, a fare avanti e indietro lungo il porto ma l’idea che il giornale del vecchio fosse proprio l’Observer lo affaticò così tanto da spingerlo a tornare a casa, esausto.

Si cucinò un paio di uova in padella, più per potersi dire di aver cenato che per altro: quel giorno non aveva mai avuto fame. Nella sua testa c’era solo quell’articolo, con cui Roberts si era probabilmente accaparrato le congratulazioni di colleghi e redattori. Erano quelli i titoli di maggior successo: accontentavano tutte le bocche, portando al loro palato le pietanze che più desideravano. Era un buffet di supposizioni e sarcasmo ma, se fare giornalismo voleva dire questo, pensò Dave, avrebbe fatto bene a diventare articolista.

Finite le uova, andò in camera e prese il pacchetto dal cassetto. Al balcone aspirò la sigaretta e si ricordò di quanto fossero buone. Se l’avesse saputo Jim… Era quasi un anno che Dave aveva smesso con quella roba, però si sa: se le tieni nel cassetto non hai mai veramente smesso.

Mentre spegneva il mozzicone si ripeteva la domanda dell’articolo, “defaillance o declino?”.

La stampa pone domande a cui non le interessa dare risposta, pensò prima di chiudere la porta della camera da letto.

***

L’indomani, al porto, il vecchio piegò il giornale ancor prima di sfogliarlo. Diede un’ultima occhiata alla baia, sperando invano di incontrare con lo sguardo il suo pugile preferito. Non avrebbe avuto più senso, adesso, andare ogni giorno al porto.
Il vecchio prese la copia dell’Observer e la gettò nel fiume. La osservò per un attimo allontanarsi lungo il corso d’acqua, immaginando l’atleta affiancarla sulla baia mentre correva, in fondo al porto, sempre più lontano.

“Lutto nel mondo della boxe: Marini muore suicida”. L’occhiello continuava: “A comunicarlo alla stampa il coach Jim Sutter. Il corpo rinvenuto nella camera da letto”.

 Giulio Canterino

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Tutto a un tratto, una stella divenne cadente. Ripensò a tutte le volte che avrebbe voluto conoscere il mondo più da vicino ma adesso il respiro le si bloccava per la paura. Cercando di calmarsi, si ripeteva che le stelle, quando cadono, diventano più belle. Un caldo insopportabile le bruciava la schiena e voltandosi poté vedere una scia di fuoco che la infiammava.

 

Dalla spiaggia, un uomo vide nel cielo notturno una stella cadere. Sorrise per quello spettacolo ma poco dopo si insospettì, accorgendosi che la cometa non scompariva. Quella scia luminosa continuava imperterrita la sua corsa, avvicinandosi sempre di più al mare. La fissò, impotente.

 

C’era qualcosa che non andava, si rese conto la stella. Precipitava, precipitava ma non si disintegrava. Eppure, le avevano raccontato che finiva sempre così per quelle che cadevano. Certo, aveva qualche bruciore sulla schiena ma nulla di più. A preoccuparla era il mare: come avrebbe fatto a respirare?

 

All’uomo, invece, che si copriva la bocca con la mano, tornò in mente un vecchio ricordo.

 

E la stella, neanche a dirlo, era finita proprio sott’acqua. Sfortunatamente non aveva mai imparato a nuotare. Appena sotto, si guardò intorno. Tutto era blu: i pesci che scappavano, le alghe smosse, persino le rocce. Non il blu del cielo a cui era abituata, certo, ma un blu più chiaro, più trasparente… non ne aveva mai visto uno così. Forse anche quello era un cielo.

L’aria, però, iniziava a mancare e la stella aveva paura. Un gruppo di lunghi pesci si avvicinò a lei e, a quel punto, la stella pensò davvero di non avere più speranze. Aveva freddo, non respirava più, si stava estinguendo. Dal gruppo di pesci, se ne staccò uno e le nuotò incontro. Lei non poté far altro che guardarlo volare in quello strano cielo e raggiungerla. In quel momento, si accorse che quello non era un pesce ma uno strano oggetto: le si posò sulla bocca e, d’improvviso, poté di nuovo respirare.

 

Da quando la luce si era spenta sul fondo del mare, l’uomo faceva avanti e indietro lungo la spiaggia, guardava l’acqua e cercava, cercava. Non si capacitava dell’accaduto ma sapeva, sapeva in cuor suo, che una cosa del genere era possibile. Si avvicinava alle onde, osando appena sfiorarle: appena sentiva i piedi bagnarsi si fermava e faceva un paio di passi indietro. Quel qualcosa, che lo incuriosiva tanto, lo spaventava anche.

Ma ecco spuntare dal pelo dell’acqua una strana forma, come un sommergibile. No, no… non un sommergibile, era molto più piccolo questo, era un tubo di plastica che fa la verticale. Un boccaglio.

 

Dopo essersi fatta guidare dal gruppo di pesci che aveva imparato a chiamare anguille, la stella sentì la terraferma sotto i piedi. Era una sensazione strana solcare il suolo per la prima volta. Uscendo dall’acqua, si accorse che un uomo era lì a guardarla. Si sa che le stelle hanno un grande valore sulla Terra, specialmente per gli umani, quindi si spaventò ben presto, sicura che l’uomo l’avrebbe rapita e rivenduta al mercato nero delle stelle. Non ebbe il tempo di scappare che questo già l’aveva afferrata.

 

Una stella, pensava, è caduta di nuovo in questo mare.

L’uomo la asciugò con il telo da mare e la guardò. L’uomo si comportava in modo strano, era goffo e insicuro, come se da anni non incontrasse nessuno e non facesse altro che stare a guardare il cielo dalla costa. Forse anche lui era caduto.

 

A quel punto quella cominciò a gridare: «Lasciami, lasciami! Non mi venderai al mercato nero! Io voglio tornare in cielo». E intanto si dimenava nell’asciugamano che era grandissimo rispetto a lei, come un cielo che le si accartocciasse intorno.

 

«Non ti voglio vendere, cara stella. Come vedi, vivo qui sulla spiaggia - e così dicendo le indicò la capanna che stava un po’ più in là, sopra una scogliera - e tutti i miei averi li ho già dati via».

«Posso aiutarti a tornare in cielo. Sappi, però, che non sarà impresa facile».

 

La stella, sentendosi stranamente rassicurata, accettò l’aiuto dello sconosciuto. Dovevano raggiungere la montagna dall’altra parte dell’isola, così le aveva detto. Lì, lui, avrebbe saputo cosa fare. Poi l’aveva nascosta tra le pieghe dell’asciugamano e si erano incamminati verso il paese, tappa obbligata.

L’uomo stava attento a che gli stralci di luce non uscissero fuori dall’asciugamano. D’altronde, la stella aveva ragione: all’epoca i corpi celesti erano quotati parecchio al mercato nero.

In paese c’era una grande festa per l’inizio della primavera, proprio quella notte. Per questo, furono cortei festanti, carri con musicisti e fuochi d’artificio ad accoglierli nel centro storico (questa parte di mondo, però, la stella non ebbe modo di ammirarla). L’uomo, purtroppo, attirò senza volere l’attenzione: per gli abitanti era un evento fuori dal normale. Si ricordavano ancora di quando se ne era andato a vivere da solo sulla spiaggia. Si diceva che fosse stato per una storia d’amore finita male, o per dei debiti di gioco. Sta di fatto che era una cosa strana vederlo nel centro del paese.

L’uomo fece finta di nulla ma un raggio di luce, a un certo punto, uscì fuori dall’asciugamano e puntò dritto negli occhi del rigattiere. Questo, ben informato sui prezzi del mercato, con gli occhi che brillavano di avidità, si avvicinò all’uomo come fa un vecchio amico e gli chiese cosa avesse mai lì nascosto. L’uomo tergiversò, si mise a parlare del tempo, della primavera e della festa ma, di fronte all’insistenza di quell’altro,  perse il controllo e iniziò ad urlare. Arrivarono altre persone e, ben presto, un capannello si formò intorno ai due uomini per evitare la rissa che oramai era matura. La stella, chiusa nel suo asciugamano, si sentì numerose mani scorrerle addosso, alcune per caso, altre cercando di afferrarla. L’uomo, per fortuna, la tenne stretta.

Poi, le voci si allontanarono e si fece silenzio. L’uomo aveva ripreso a camminare.

«Tutto bene lì dentro?» le chiese con un po’ di fiatone.

«Dove stiamo andando?» chiese lei poco dopo, quando la pianura divenne salita. Più si avvicinava al cielo, più sentiva i suoni dell’universo chiamarla.

«Stiamo salendo sulla montagna. Manca poco, porta pazienza» rispose lui.

 

Giunsero finalmente sulla cima del monte, dove l’uomo posò la stella e la lasciò uscire dall’asciugamano insieme al boccaglio che le permetteva ancora di respirare. Tutto quel buio diede fastidio agli occhi della stella, abituata ad altre luminosità. L’uomo la portò per mano fino alla punta più alta e le mostrò una corda che stava dritta dritta, in verticale, e fluttuava. In basso era legata a una pietra enorme. Era come se la gravità la tirasse verso il cielo, non verso la terra. Che cosa strana.

«Che ci fa qui una corda?» chiese lei, curiosa.

«È una lunga storia. Ma adesso non abbiamo tempo. Capirai una volta in cima». Lei lo ringraziò e, per salutarlo, gli lasciò il boccaglio dicendo: «A me non serve più».

 

Quando il piccolo astro arrivò su, alla fine della corda, si accorse che a tenerla dritta verso il cielo era un’altra stella. Sembrava molto più vecchia di lei.

«Che ci fai qui, piccola?» le chiese l’anziana.

«Sono caduta dal cielo stanotte. Non sapevo cosa fare, ma un uomo mi ha offerto il suo aiuto e mi ha fatto risalire quassù» rispose lei. L’altra sorrise piangendo, chissà perché, e la salutò indicandole la via per casa.

 

Un boccaglio, una corda e l’oscurità: ecco cosa mi è rimasto, disse tra sé l’uomo ancora in piedi sulla cima della montagna. Aveva dato via ogni cosa, sicuro della sua scelta, e ora ne sentiva la dolorosa mancanza. Ora, però, qualcosa ce l’aveva.

Prese ad arrampicarsi sulla corda e, quando sentì mancargli l’aria, mise il boccaglio per respirare.

 

A differenza di come accade nel mondo al di sotto del cielo, man mano che saliva la corda, la fatica si faceva sempre di meno; a ogni metro più in alto, era più leggero. Stranamente, più si allontanava dalla Terra e più si sentiva a casa.

Una volta giunto in cima, fu accolto da una luce fortissima. Era una sensazione strana, pensava, come se fosse baciato sulla schiena e sul volto e tutto intorno. Una sensazione che aveva dimenticato. Poi, dal silenzio, una voce parlò: «Sei tornato, finalmente».

Non avevano aspettato invano.

Giulio Canterino

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